Ci sono anche le “strizze di routine
Era giusto chiamare “cucina” il reparto resine; infatti quello che oggi un reattore in acciaio inossidabile 316…a quel tempo era una pentola di 400 litri troncoconica (di acciaio ?) col sedere incastrato in un buco nei mattoni del pavimento Solo Cecco era autorizzato ad accedere ai “fuochi”, sia per questa sua abilità, sia perchè non rischiava di incendiarsi i capelli (si pettinava alla Pantani) Sono piccole strizze reiteranti quelle che spesso devi affrontare…come dare gli esami: il valore della strizza inversamente proporzionale a quanto sai di sapere…o di saper fare…e quindi ti ci abitui (o impari). Ma talvolta anche queste “piccole” si trasformano in qualcosa di inatteso. Correva l’anno 1949 e, piccola “ma tutte le volte”, c’era da fare la “corta di Pavese” (intanto questo correre degli anni non poi cosi corretto. A vent’anni infatti non corrono per niente: si strusciano passeggiando, mentre tu li riempi tutti e sei sempre in attesa di quello successivo. A 40 anni si che incominciano a correre, e non hai già quasi tempo per tutto, ma dai 65 in poi allora precipitano…non fai a tempo ad andare a tutte le feste e i compleanni dei nipotini che l’anno gi bell’e finito…e se a qualcuno dei pi grandicelli gli scappa una distrazione ti ritrovi subito bisnonno…infatti vieni anche debitamente informato delle “prime cosette” delle grandicelle…).
Comunque, io ero l che facevo il ragazzo di laboratorio e il sig. Pavese mi insegnava anche a fare le resine e quindi, tra un esame e l’altro, stavo in “cucina” a seguire le cotture (acidità e viscosità Gardner). Era giusto chiamare “cucina” il reparto resine; infatti quello che oggi un reattore in acciaio inossidabile 316, con tanto di conduzione computerizzata del riscaldamento a olio diatermico, colonna di frazionamento, condensatore, abbattitore dei vapori, agitazione a velocità variabile, visualizzazione video, registrazione di tutte le condizioni, flusso di gas inerte, raffreddamento automatico, prepesata su celle dei componenti in reazione e in diluizione, pompa a vuoto, depurazione delle acque di processo, postcombustore di eventuali vapori inquinanti…a quel tempo era una pentola di 400 litri troncoconica (di acciaio ?) col sedere incastrato in un buco nei mattoni del pavimento, per essere debitamente investito dalla fiamma rombante del sottostante bruciatore. La pentola aveva anche un coperchio, un agitatore e persino un termometro di vetro con il lungo gambo inguainato che pescava nella resina. Nessun raffreddamento, nessuna valvola di scarico, nessun gas inerte, ma (vivaddio!) un bel tubo da stufa che collegava il coperchio con il prato del vicino, al di l del muro dello stabilimento, nel quale prato finiva tutto, o quasi tutto, “quello” che la reazione produceva…(il valore di questa “emissione” era comunque perfettamente “sotto controllo”, in quanto monetizzato dal vicino stesso, valutando l’area d’erba che le sue pecore si rifiutavano di brucare…) La regolazione della temperatura di reazione era, come nei nuovissimi computer, addirittura a comando “vocale”, ciò se dovevi condurre a 250¡C ed eri a 254¡C chiamavi ad alta voce Cecco (il fuochista) per spegnere il bruciatore, la temperatura scendeva lentamente e a 246¡C richiamavi Cecco per riaccenderlo e Cecco arrivava come un angelo degli inferi brandendo la sua asta di ferro con lo stoppino infiammato e dava fuoco, scansando abilmente il ritorno di fiamma che si verificava a tutte le accensioni. Solo Cecco era autorizzato ad accedere ai “fuochi”, sia per questa sua abilità, sia perchè non rischiava di incendiarsi i capelli (si pettinava alla Pantani), sia perchè la volta che si fosse rinvenuto un cadavere carbonizzato ed irriconoscibile nel cunicolo dei bruciatori non era necessario fare appelli e controappelli per scoprirne l’identità …poteva essere solo lui! Ma Cecco aveva anche un’altra funzione (vedi la flessibilità del lavoro?!): era il miglior confezionatore delle lattine piccole (dal decimino al chilo) per gli smalti sintetici lucidi. Questa “specializzazione” era dovuta fondamentalmente al fatto che Cecco sapeva costruirsi dei filtri perfetti, facendosi regalare le calze di seta usate (non c’era il nylon e quindi erano un bene prezioso) dalle giovani impiegate. Non accettava buchi sulle ginocchia, faceva un bel nodo a livello caviglia (i buchi sono nei piedi!) occludeva le smagliature con un pennellino e soluzione di nitro (insolubile negli smalti sintetici!) e arrotolava su un cerchio metallico la parte “coscia”, non ideale per la filtrazione in quanto c’erano le lesioni delle giarrettiere e spesso altre “usure” probabilmente dovute a incaute o inesperte manualità da parte di terzi. Per questo bisognava “chiamarlo” ai fuochi…lui era l che confezionava, ma restava con me di notte quando si faceva la “long-olio”. Le “long-olio” (circa 60% di olio di lino o di soia), iniziando alle 8 del mattino mi permettevano di mettermi a letto verso le 6 del mattino successivo… dopo aver mangiato due panini e fumato un pacchetto di nazionali (ermessissimo fumare dove hai una fiamma infernale a un metro dai piedi!). Con le medio-olio (circa 50% di olio) avevo buone probabilità di cenare a casa verso le 22, ma con la corta di Pavese avevo ancora tempo, nei pomeriggi d’estate, per andare a nuotare in Po. La si chiamava “la corta di Pavese” sia perch era una cortolio, sia perchè l’aveva fatta lui. Ma il sig. Pavese non era un chimico, anche se era, oltre che un gran brav’uomo, un vecchio espertissimo “praticun”. Probabilmente aveva infilato l’olio di legno (39%)* dove in origine c’era del soia o del cocco, fatto sta che con la corta di Pavese si faceva la pi rapida e aderente antiruggine a spruzzo che si era mai vista, ma per prenderla al volo prima che “partisse” bisognava essere quasi un prestigiatore, e d’altronde le sue caratteristiche applicative dipendevano proprio da quanto era “tirata”. Me la spiegò bene, prima di farla insieme a lui… “Duturin (sapendomi “universitario” mi chiamava dottorino) non stare a fare acidità o viscosità Gardner…non hai tempo per farlo che quella ti parte sotto.*
Guarda il colore della goccia sul vetrino: quando diventa pi gialla, ma non solo pi gialla, e un p pi rossa, ma non proprio pi rossa, anche un filo pi verde, ma solo alle volte, e non proprio pi verde…e non per niente pi nera”. Quando gli chiesi insomma com’era ’sto colore, allora, dopo averci pensato bene, mi precisò : “guarda, duturin, a l culur pom murd da l ’n poc” ( color mela morsicata dopo che trascorso un pò di tempo). E aveva ragione; la resina, a un certo punto aveva un netto viraggio di colore, non sempre uguale, e non sempre puntuale, sicuramente dovuto all’ossidazione dell’olio di legno e forse anche all’acciaio (inossidabile?) della pentola e niente al mondo meglio di quel detto dialettale avrebbe potuto definire quell’evento nell’incertezza della sua maturazione e, nel contempo, quella ineluttabilit di sfumature di toni di colore aleatori, ma sempre progressivi. Fatto sta che avvenuto il “da l ’n poc” potevi incominciare a misurare velocemente la viscosità con uno strumento sensibile, affidabile, preciso e prezioso: le tue nude mani. Si trattava di fare quello che Pavese chiamava “stripping” (e forse aveva ragione: “to strip” vuol dire spogliare, ma anche “strappare”) e mi spieg bene come farlo (e ci metti solo 10 secondi!). Colare una grossa goccia di resina bollente su un vetrino.
Soffiargli un p su, fintanto da essere sicuro di poterla toccare a fondo con il dito medio della mano destra senza farti venire la bolla sul polpastrello (questa era la “termostatazione”), unire il polpastrello destro a quello della mano sinistra, e quindi allargare le braccia non troppo velocemente e neanche troppo lentamente, ma (Pavese mi disse) proprio col movimento che fa il sacerdote quando, finita la messa, disgiunge le mani e spalanca le braccia in un abbraccio ideale a tutti i fedeli e dice, benedicendo, “la pace sia con Voi”. Se il grado di polimerizzazione gi significativo, fra i due polpastrelli che si allontanano si genera un filo e la lunghezza del filo nel momento in cui si rompe la misura della tua viscosità. Quindi se il filo si rompe e tu hai abbracciato solo la corsia centrale fra le due file di banchi sei ancora indietro…dopo dieci minuti vedrai che abbracci anche un p di gente sui banchi…rifallo dopo cinque minuti e vedrai che forse abbracci tutti i fedeli in ginocchio…e quando poi abbracci anche quelli in piedi nelle navate laterali e il filo “tiene” ancora allora bene che ti sbrighi a diluire: la corta di Pavese finita! Me ne fece fare due o tre insieme a lui e poi continuai da solo “morsicando mele e benedicendo fedeli”. Andava tutto bene e se ne faceva una o due alla settimana, anche perchè si caricavano solo 250 chili, per avere il posto per diluirla direttamente in pentola…ogni tanto cambiavo dito. Finchè venne la volta che, forse perchè Cecco non veniva a spegnere (probabilmente supervisionava calze in procinto di essere smesse), o forse perchè io invece di mezza sigaretta di pausa fra le benedizioni ne avevo fumata una intera, fatto sta che mentre mi aspettavo le navate laterali…mi ritrovai invece come un Cristo in croce, con il filo teso a dieci centimetri dal naso…era chiaro che stava “andando”: quella fu la prima “strizza da resina” della mia vita. Corsi a chiamare Pavese, lui rifece il suo “stripping” e rimase crocifisso anche lui…allora url a un operaio di portargli una materia prima (disse il codice naturalmente); quello arrivò l con un sacco di una resina scura in pezzi e la scaricò tutta nella pentola…e la nostra resina, dopo dieci minuti, ridiventà docile e fluente…e non faceva neanche pi il filo. A parte la strizza, quella volta imparai che un’alchidica che parte la puoi salvare, se arrivi in tempo, scaricandogli dentro un bel p di colofonia in pezzi (me lo confidò dopo il Sig. Pavese il quale, nonostante tutte le istruzioni che mi aveva dato, certi “segreti intimi” se li era tenuti). E’ chiaro: la resina non pi la stessa, ma sempre recuperabile da qualche parte in piccole quantità e la pentola salva e pronta per un’altra cottura, e quindi, neanche allora, i “signori venditori” subirono traumi sconvolgenti (delirando in lacrime su mancate provvigioni) per ritardi di consegna di antiruggine rapida a spruzzo. Il sig. Pavese non mi rimproverò per niente, anzi mi tranquillizzò : “…a l ’na resina parei, duturin, a l’ pesc ’d na cavala fola! ( una resina così.. peggio di una cavalla matta!) A quei tempi la “sapienza” del fare resine o vernici era un mistero occulto, un muro di gomma, tutto era segreto e nascosto, non sapevi neanche che razza di materie prime usavi e se per caso ti capitava di leggere una rivista tecnica questa ti veniva immediatamente sequestrata dal direttore tecnico (anche lui un “praticun”) e quindi incontrare nella tua vita di lavoro un Sig. Pavese era una vera fortuna (anche se m’aveva occultato la colofonia) ed chiaro che lo ricordo ancora molto bene…quasi con affetto. Tenete presente che, anche oggi, un neolaureato con 110 e lode in chimica industriale non sa neanche da che parte incominciare per fare un lurido opaco poliuretanico…e che se dovessi, oggi, rifare la “corta di Pavese” non mi fiderei di un modernissimo impianto, ma pretenderei quella pentola, Cecco, un sacco di colofonia, e le mie mani… e forse, qualche ora prima, morderei una mela….
(*) Precisazioni tecniche La viscosità Gardner si esegue sulla resina diluita e quindi, prelevato il campione, occorre il tempo per pesare con precisione il solido e il solvente, diluire la resina e termostatare il tutto a 25¡C (almeno 15 minuti!). L’olio di legno il pi insaturo e il pi siccativo degli oli vegetali e quindi si producono resine molto rapide per sintetici essiccanti all’aria. Naturalmente questa sua reattivit la si paga con un colore pi scuro e ingiallente delle resine stesse ed una notevole autopolimerizzazione durante la cottura. Comunque la corta di Pavese non era proprio “così giusta”. Se mi legge un tecnico di resine posso dirgli che il mio programma computerizzato di formulazione alchidiche, costringendolo a formulare quella resina (39% legno, litargirio, glicerina, ftalica) con una K alchidica=0,959, mi fornisce la stessa composizione, ma mi fa dieci “beep”, avvertendomi che il punto di gelo teorico a 16-17 di acidit …e questo senza tener conto del fatto che “legno”!
Dr. Frank Peer Underall