Si è svolto a Milano, presso la sala conferenze della locale ASL, un incontro sulle modifiche introdotte nella normativa riguardante il trattamento acque di scarico dopo la legge “Merli”.
Pierluigi Offredi
CONTROLLO INTEGRATO DEGLI INQUINANTI NEL TRATTAMENTO DELLE SUPERFICI
Il DL 152/99 ha apportato importanti modifiche nel campo della tutela delle acque dall’inquinamento. Per discutere sull’argomento l’Unità Operativa di Prevenzione del Distretto 4 della ASL di Milano ha organizzato un seminario di due giorni, al quale hanno partecipato operatori di vigilanza, responsabili dei Servizi di Igiene Ambientale, rappresentanti delle Province di Milano e Lodi, del Comune di Milano e un magistrato esperto in materia.
All’incontro è stato invitato anche il direttore di “Professione Verniciatore”, Pierluigi Offredi, al quale è stato chiesto di portare un contributo alla discussione, descrivendo le problematiche della verniciatura. Pubblichiamo una sintesi del suo intervento.
TRATTAMENTO ACQUE: IL QUADRO NORMATIVO
Su questo tema esistono oggi in Italia tre leggi: la 319/76, la 183/89 e la 36/94. La prima ha avuto come obbiettivo la tutela dall’inquinamento, regolamentando gli scarichi industriali e delegando gli scarichi civili e le fognature alle regioni. La seconda si è concentrata sulla difesa del suolo e in particolare sulla pianificazione dei bacini idrografici, dal punto di vista qualitativo e quantitativo. La terza ha avuto come finalità la gestione delle acque, con la fissazione di criteri per l’organizzazione delle strutture che si devono occupare dell’approvvigionamento e della depurazione in maniera integrata.
Nonostante il ponderoso corpo legislativo, come spesso accade nel nostro Paese, dove si fanno molte leggi e le si applicano poco, la 183/89 ha ancora scarsi risultati, mentre la 36/94 viene applicata (parzialmente) solo da qualche regione, con i risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi: spreco di risorse, disparità di costi e inquinamento diffuso.
La prima legge contro l’inquinamento delle acque nel nostro Paese risale al 1976. La legge 10 maggio 1976, n. 319 “Tutela delle acque dall’inquinamento”, emanata per difendere la qualità delle acque, disciplinava lo scarico delle acque di rifiuto e gli scarichi degli insediamenti produttivi. Essa si fondava sui limiti di accettabilità, cioè sull’indicazione delle concentrazioni massime dei vari tipi di inquinanti considerate ammesse negli scarichi.
All’entrata in vigore della legge tutti gli insediamenti produttivi si sono dovuti adeguare provvedendo al trattamento acque prima della loro immissione diretta in un corpo idrico (corso d’acqua superficiale o lago) o in una fognatura. La complessità e la specificità di molte lavorazioni, la difficoltà di separare i flussi idrici inquinanti all’interno della fabbrica e di ridurre i consumi d’acqua, ha portato a realizzare impianti trattamento acque non sempre in grado di rispettare i limiti di accettabilità imposti dalla normativa. Va ricordato, infatti, che i limiti di accettabilità sono stati significativamente fondati sul principio delle “soglie di rischio”, identificabili come le concentrazioni limite alle quali è possibile un normale svolgimento delle attività biologiche che hanno luogo nell’ambiente acquatico; esse sono state dedotte tenendo conto non solo degli effetti nocivi diretti nei riguardi della fauna ittica, ma anche di quelli diretti ed indiretti sulle altre componenti dell’ecosistema. Per questi motivi i limiti di accettabilità per alcuni parametri, in particolare quelli relativi a contaminanti tossici, nocivi e persistenti, sono risultati molto restrittivi e tali da richiedere tecnologie appropriate di depurazione.
All’epoca della legge le tecnologie di depurazione erano per lo più di importazione, mentre scarsa o inesistente era la cultura della progettazione degli impianti di trattamento delle acque di scarico. E’ merito della legge 319/76, generalmente chiamata legge “Merli”, se anche nel nostro Paese si sono sviluppate tecnologie di trattamento acque. Ma per tutelare un corpo idrico non è sufficiente controllare se uno scarico rispetta le concentrazioni riportate in una tabella, bisogna garantire che l’insieme degli scarichi e delle altre attività civili e industriali, che inquinano lo stesso corpo idrico, non siano comunque tali da pregiudicarne la qualità. E’ noto infatti che molti scarichi che rientrano nei limiti tabellari, o anche un solo scarico con una grande portata, che si immettono in un corpo idrico possono comunque distruggere l’ecosistema. In questo senso la normativa sulle acque (DL 152/99 del 11 maggio 1999, pubblicato sul Supplemento Ordinario della G.U. del 29 maggio 1999, che recepisce le direttive CEE 271/91 e 676/91 in materia di tutela delle acque) può rappresentare un’occasione importante per rivedere le modalità di controllo dell’impatto ambientale prodotto dalle attività di verniciatura), anche alla luce del nuovo approccio europeo “integrato”.
ACQUA, ARIA, RIFIUTI, IGIENE DEL LAVORO: CHI CONTA DI PIU’?
La valutazione dell’impatto ambientale integrato non può prescindere da un’analisi delle migliori tecnologie disponibili, che consenta una valutazione il più possibile obbiettiva delle prestazioni tecniche e ambientali dei diversi cicli produttivi. Credo non sfugga la delicatezza di questo lavoro di analisi, specie in un campo come quello del trattamento delle superfici, in cui il “sapere” è detenuto quasi esclusivamente dalle aziende che forniscono prodotti e apparecchiature, per le quali è oggettivamente facile subire la tentazione di diffondere dati e informazioni utili ai propri interessi commerciali.
L’assoluta mancanza di fonti scientifiche, o comunque al di sopra delle parti, ha fatto si che negli ultimi dieci anni in questo settore siano circolate numerose teorie dipinte di verde, con le quali si è tentato di spacciare per “ecologico” qualsiasi processo o prodotto alternativo a quelli esistenti, creando false aspettative e grande confusione sia tra gli utilizzatori che tra gli enti di controllo.
Nella verniciatura del legno la lotta per la conquista della fetta di mercato che nascerà dall’introduzione di prodotti e impianti a basso impatto ambientale è motivata dalla possibilità di spartirsi una torta molto ampia e appetitosa. Nella mischia si sono gettati in molti, tentando di screditare alcune alternative per accreditarne altre, sfruttando la scarsità di informazioni disponibili. I numerosi “venditori di fumo” presenti sul nostro mercato hanno avuto buon gioco nel proporre agli utilizzatori, che si sono trovati a dover sostituire cicli di verniciatura collaudati da tempo, i diluenti e le vernici “ecologiche” o addirittura “atossiche”, giocando su un linguaggio di sicuro impatto, ma del tutto falso e fuorviante.
Anche gli investimenti nella depurazione dell’aria hanno subito gli effetti di queste carenze informative, per cui oggi esistono verniciature che hanno installato impianti di combustione che utilizzano grandi quantità di metano per bruciare piccole quantità di solvente. Si è arrivati al punto che si torna ad usare prodotti con elevato contenuto di solvente per poter diminuire il consumo di metano, tentando di raggiungere l’autosostentamento. Chi decide qual è il punto di equilibrio tra dispendio energetico e inquinamento ambientale?
Uno degli effetti più deleteri di questa situazione sta nel fatto che si rischia di perdere l’occasione per rivedere in modo razionale scelte produttive che erano rimaste cristallizzate nel tempo e che la legislazione per la protezione ambientale ha fortemente stimolato. I prodotti e i cicli alternativi, che dovrebbero tra l’altro richiedere un’attenta valutazione per quanto riguarda le loro caratteristiche relative all’igiene del lavoro, dovrebbero anche garantire livelli di prestazione comparabili con quelli che essi intendono rimpiazzare. Inoltre, come è stato più volte sottolineato in ambito europeo in occasione della elaborazione delle nuove direttive ambientali, ogni alternativa deve essere attentamente valutata sotto l’aspetto dell’impatto ambientale “globale”. Bisognerebbe cioè tenere conto di tutte le conseguenze che derivano dall’impiego dei prodotti, in modo da evitare che ciò che viene eliminato o ridotto in termini di inquinamento atmosferico vada a pesare in termini di inquinamento delle acque, di difficoltà di smaltimento dei rifiuti o di pericolo per gli operatori.
IL GRANDE ASSENTE
In questo quadro desolante, molto simile a una giungla in cui vince chi urla di più, si sente molto la mancanza di organismi pubblici e/o privati che siano in grado di svolgere un ruolo di analisi e controllo dell’applicazione delle migliori tecnologie. In questo senso l’esempio dell’EPA statunitense (l’Ente federale che si occupa dei problemi di inquinamento) e di altri analoghi organismi europei ci fa sentire lontani anni luce dalla realtà dei Paesi occidentali con cui competiamo. Nonostante la buona volontà degli operatori pubblici, non si può pensare che sia sufficiente una sorta di episodica “autoformazione”, che non consente di restare aggiornati e di conoscere a fondo le problematiche di settori specifici come il trattamento delle superfici. In questo senso è auspicabile che il ruolo dell’Agenzia Nazionale Per l’Ambiente (ANPA) e delle agenzie regionali (ARPA) possa colmare una lacuna che rischia di creare una totale “deregulation”.
CONCLUSIONI
La legislazione ambientale, ma soprattutto il modo in cui viene applicata, è un elemento determinante nella definizione delle strategie produttive. In questo quadro è fondamentale il ruolo della funzione di controllo e di vigilanza, il cui intervento, immancabilmente, diventa anche un fattore di regolazione del mercato.
I rischi derivanti dallo svolgimento “non informato” di questa funzione sono così sintetizzabili:
– favorire sul mercato prodotto peggiori (per le materie prime ed i processi di produzione, di immagazzinamento, di trasporto, di lavorazione e di utilizzo per il consumatore), vanificando il lavoro delle aziende più sensibili alla compatibilità ambientale delle lavorazioni;
– creare squilibri sul mercato in quanto, nell’intento di tutelare un corpo idrico dall’insieme degli scarichi di una specifica zona, si potrebbero penalizzare alcune aziende, come è già successo nell’applicazione del DPR 203 sull’inquinamento atmosferico, che ha creato fenomeni di concorrenza sleale tra aziende soggette al rispetto di limiti diversi, portando di fatto allo spostamento di determinate lavorazioni in zone meno restrittive e/o meno controllate.